Il male che scaccia il male 4 Dicembre 2015 – Pubblicato in: interferenze

Visioni dal Torino Film Festival.


Credo di essere tachicardico: la cosa mi agita, perché un cuore che batte troppo in fretta alla lunga finisce per danneggiarsi. Secondo la cardiologa, invece, non lo sono affatto. Il cuore mi batte sì all’impazzata, ma solo per via della mia ansia di essere tachicardico. E l’ansia è una cosa che devo risolvere, o alla lunga potrebbe danneggiarmi il cuore.

Ecco: nel momento in cui il mio cuore frettoloso esploderà, immagino che sarò interessatissimo a sapere se la colpa è della tachicardia autentica o della falsa tachicardia causata dalla paura della tachicardia. Fino ad allora, comunque, sarò universalmente bollato come “malato immaginario”.

E’ un paradosso, certo, ma che dà bene conto della divisione netta presente nel senso comune tra mali veri e mali meno veri. Dove i primi sono quelli contabili, radiografabili, misurabili, sezionabili, e i secondi sono quelli soggettivi, psicologici, spirituali, strettamente individuali.

L’intensa settimana appena trascorsa al Torino Film Festival mi ha offerto molti spunti di riflessione in questo senso, grazie alle numerose opere che hanno toccato più o meno profondamente il tema della malattia. Intesa sia come mancanza di salute fisica sia come male di vivere, indistintamente, in barba alla smania classificatoria che affligge il nostro tempo.

Il nostro tempo ha bisogno di contare, forse per contenere la paura. 130 morti a Parigi, 234 sull’aereo russo, 230 mila in Siria: anche l’orrore diventa una questione di quantità. Il nostro tempo misura, e lo fa per giudicare. Basta farsi un giro su Facebook (particolarmente in queste ultime settimane): tutto un dibattito su chi ha ragione di soffrire, e a quanta sofferenza ha diritto, e che sarebbe meglio piangere questo anziché quest’altro, indignarsi per questo più che per l’altro, arrabbiarsi con questo invece che con quest’altro.

C’è probabilmente una capienza massima anche per le emozioni, e così il senso comune stabilisce dei criteri “oggettivi” al di sotto dei quali il dolore non si accetta come autentico: proprio come le barre per l’altezza minima alle giostre.

Nel film Antonia la giovane bella ricca poetessa Antonia Pozzi è preda di un’angoscia esistenziale indefinita, che nessuno prende sul serio. Lei stessa arriva a vergognarsene:

Io non sto male davvero, la mia è solo una scusa.

Una scusa: finirà per suicidarsi a soli 26 anni. Se il suo male fosse stato un cancro, o se avesse avuto fame, forse l’avrebbero ascoltata.

Per questa stessa ragione, in una scena struggente della pellicola Coup de chaud, la mamma del protagonista giustifica suo figlio, considerato problematico e cattivo da tutto il villaggio, dicendo:

 Non è colpa sua, è colpa dell’ossigeno. Gli è mancato alla nascita.

Già, perché un problema medico, diagnosticabile, chiama rispetto. Un disagio psicologico o sociale invece chiama solo una condanna.

Nel documentario The Nightmare gli otto intervistati, affetti da paralisi del sonno, insistono molto sul fatto che le allucinazioni che li perseguitano sono “vere” e non sogni o proiezioni mentali. Eppure in fin dei conti un fantasma è un fantasma, qualunque sia la sua provenienza, e la paura è la paura. Addirittura queste persone rinunciano a curarsi con la psichiatria, condannandosi a un’esistenza di terrore e insonnia, pur di affermare che ciò che vedono esiste indipendentemente da loro. Pur di non relegare il malessere a quell’ambito puramente soggettivo che è liquidato dagli altri come capriccio della mente, o al limite pazzia. A quanto pare avere un mostro che si annida tra i pensieri è meno dignitoso che averlo ai piedi del letto: nel nostro mondo l’immaginazione vale sempre molto meno della percezione.

Il nostro tempo ha bisogno di constatare, di verificare, di contabilizzare, anche a costo di sminuire la misteriosa complessità della vita. Ricordo che un maestro una volta mi disse:

se un naufrago aggrappato a un legno contasse le possibilità che ha di essere salvato o di essere portato a riva dalle onde, mollerebbe la presa. Ma lui non conta: lui semplicemente vive.

Lo trovo un concetto molto suggestivo, espresso in maniera appassionante dal documentario The ecstasy of Wilko Johnson. E’ la storia del chitarrista della band “Dr Feelgood” dal momento in cui gli vengono dati 10 mesi di vita fino all’operazione, disperata e imprevista, che un anno più tardi lo salverà. Wilko racconta che tornando a casa dopo la diagnosi fu colto da una specie di estasi euforica durata per tutti i mesi della sua malattia terminale. Niente più preoccupazioni per il futuro, niente più gioie rimandate o sacrifici alle ambizioni: solo un totale pieno godimento delle cose presenti. Wilko decide di non contare il tempo rimasto, di non misurare la crescita del tumore, di non curarsi, di non interrogarsi:

finché starò bene, farò ciò che mi fa stare bene

Amici, viaggi, letture, concerti. Paradossalmente invece, dopo la guarigione, dichiara mestamente:

ora le mie tristezze sono tornate

Chi come me non ha provato una malattia grave, non può che fidarsi della parola altrui. Mi sono imbattuto recentemente una lettera di Guido Gozzano in cui il poeta, vicinissimo alla morte per tubercolosi, rilegge Postuma, una raccolta di liriche in cui l’autore Olindo Guerrini si fingeva un moribondo al culmine della sofferenza. Scrive Gozzano:

Ho riletto, dopo anni e anni, il caro volumetto. Ma come si vede che il poeta aveva sanissimi polmoni! E’ tutta un’altra cosa l’idea di morire, tutt’altra cosa! Si resta lì, non saprei dire come. Ma non si mormora, non si impreca, non si dicono cose brutte. Si aspetta sorridendo la morte: si sta quasi bene.

Verrebbe allora da pensare che malattia fisica e male di vivere si scaccino a vicenda, siano alternativi l’uno all’altra. Forse perché la battaglia per la sopravvivenza materiale lascia poco spazio a preoccupazioni d’altro tipo.

Lo racconta con leggerezza chiaroveggente Phantom boy, film d’animazione che ha come protagonista un bambino malato di leucemia. Chiuso in ospedale e spossato da una continua stanchezza, il piccolo Leo impara a uscire da se stesso addormentato, e a svolazzare per la città. E così, mentre il corpo lotta contro il suo male, lo spiritello vive una rocambolesca avventura poliziesca, salva New York da una minaccia criminale e aiuta gli altri pazienti in difficoltà. «Ma loro non se lo ricordano mai, dopo» dice malinconicamente il piccolo, notando come chi è ammalato tende a concentrarsi su se stesso, sulla propria battaglia, e a dimenticarsi del mondo e degli altri.

Ce lo conferma Wilko Johnson:

Ho smesso di guardare i tg e leggere i giornali. Voglio essere completamente estraneo ai fatti del mondo

Gozzano poi, mentre in Europa la Grande guerra consuma le sue carneficine, scrive il racconto Guerra di spettri in cui i malati terminali di un sanatorio, indifferenti al momento storico in una cornice piacevole e raffinata, litigano per futilità.

Entro in una villa graziosa, di stile moresco […] con tre verande a vetrate: cages a macabées, in crudele gergo sanatoriale, fiorite intorno da gaggie e rose thea [..]. Ho una gran predilezione per le case dove si muore: nessuno spettacolo mi riconcilia maggiormente con la vita. Passo pomeriggi interi in questi giardini, prendo il the fra questi morituri […].

Gozzano morì nel 1916, nel suo letto, il giorno di una battaglia importante. Pare che, sapendo di dover morire, avesse chiesto di farlo per uno scopo, con gli altri della sua generazione, in trincea. Fece più volte la visita per l’arruolamento, ma fu respinto perché malato. Proprio questo, credo, dovremmo temere della malattia: che ci ammazzi i sogni, che ci inchiodi a contare e ricontare i battiti del cuore, quando c’è ben altro per cui lottare.

Dopo tanti spunti allora mi viene da pensare che la distinzione sensata non sia tra i dolori del corpo e quelli dello spirito. D’altronde, come dice Wilko

la mente vive in se stessa e può rendere inferno il paradiso e paradiso l’inferno

Piuttosto la distinzione dovrebbe essere tra quei mali che ci rendono inutili e bloccati, e quelli che ci aiutano ad evolvere, quelli capaci di insegnare. Perché ci sono mali senza uscita, che soffocano la vita, da combattere e debellare; e poi c’è anche un dolore buono, un po’ come il colesterolo buono, una sofferenza omeopatica che neutralizza quella più distruttiva. E’ quella che sta alla base dell’empatia con gli altri, della voglia di fare qualcosa per guarire un mondo malandato, l’ingrediente segreto della creatività. Questa malinconia fertile dovremmo imparare a coltivarla, e a potarla quando cresce troppo, come si fa con gli alberi perché facciano i frutti. Ecco: se ne fossimo capaci, potremmo non aver paura del resto. Del resto, anzi, potremmo ridere.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori

sovente qualcuno che picchia, che picchia…sono i dottori.

Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,

m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro.

E senton chissà quali tarli i vecchi saputi…A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli…

[..]

guido-gozzano

 


NOTE:

Tutti i film citati sono stati presentati in cartellone al 33° Torino Film Festival (20-28 novembre 2015).

Nell’ordine, sono:

ANTONIA, di Ferdinando Cito Filomarino

COUP DE CHAUD di Raphael Jacoulot, vincitore del Premio del pubblico

THE NIGHTMARE di Rodney Ascher

THE ECSTASY OF WILKO JOHNSON di Julien Temple

PHANTOM BOY di J.L. Felicioli e A. Gagnol

“Guerra di spetri” (con una t sola) è un racconto di Guido Gozzano rimasto inedito, pubblicato postumo a cura di Franco Contorbia su “Il lettore di provincia”.

I versi che chiudono il post sono un brano della poesia “Alle soglie” di Guido Gozzano, inclusa nella celebre raccolta “I colloqui”.

La foto d’apertura è una scena tratta da “The ecstasy of Wilko Johnson”. Quella conclusiva ritrae Guido Gozzano sereno nella sua villa ad Aglié.

 



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