Morfologia della mamma 10 Dicembre 2015 – Pubblicato in: interferenze

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Altre visioni dal Torino Film Festival.

Sarà che non sono un critico, e se ho un obiettivo nella vita è provare a non diventarlo mai.

Sarà che ho trent’anni, suppergiù, l’età in cui ti trasformi da “fidanzato” in “compagno”, da “single” a “scapolo”. L’età in cui “vado a casa” significa una cosa e “vado dai miei” un’altra; l’età intermedia, in quel bizzarro avvicendarsi di ausiliari che è l’esistenza, tra l’essere figli e l’avere figli, tra l’avere (ancora) i genitori e l’essere genitori.

Sarà tutte queste cose, ma quando ho dovuto dire un titolo del Tff33 che ho proprio amato ne ho detti due: Mia madre fa l’attrice e Final girls.

Due film di genere completamente diverso (documentario italiano il primo, commedia slasher statunitense il secondo), entrambi capaci di spremermi diversi generi di lacrime, ma nessuno dei due capace di andare oltre le tre stelline nelle recensioni e i dieci secondi di applauso.
Striscia recensioni
Non sono un critico, grazie al cielo, e mi permetto il lusso di usare il cuore come metro di valutazione. Ma anche il cuore ogni tanto necessita di taratura, e così dopo l’impatto iniziale mi sono domandato: perché proprio questi due?

Sono entrambi film sulla maternità e sul rapporto genitori-figli, innanzitutto. Ma questo può essere un caso: il festival di quest’anno era ricchissimo di variazioni sul tema. Tanto per citarne alcune: Hellions (una gravidanza e le paure connesse), Evolution (un allucinante paese di sole madri e figli maschi), Nos otras / ellas (un succedersi di generazioni di mamme e figlie), Iona (sul sacrificio di un ragazzo per la difesa di sua madre), e poi Keeper, il vincitore, storia di due adolescenti che si apprestano a diventare genitori (ma quello però non l’ho visto).
striscia altri film
Mia madre fa l’attrice e Final girls sono entrambi film molto divertenti. E siccome io mi ostino a credere che i film si dividano in due categorie (quelli che fanno sorridere e quelli che non ne sono capaci) lo considero un pregio. La comicità è più difficile da fare, più facile da amare, più potente nel coinvolgere e più vulnerabile da criticare.

Ma soprattutto, a guardare con più attenzione, raccontano la stessa storia.

C’è una mamma, che è stata attrice da ragazza, in uno di quei film che non arrivano alle tre stelline nelle recensioni o ai dieci secondi di applauso. Le sue ambizioni e la giovinezza sono rimaste confinate lì, in uno scialbo poliziesco anni ’50 per Silvana Stefanini, in un horror trash anni ’80 per Amanda Cartwright. La gloria cinematografica ha lasciato il posto, per entrambe, a un figlio: rispettivamente Mario Balsamo (protagonista oltre che regista di Mia madre fa l’attrice) e Max (che a dispetto del nome è una ragazza bionda).

Dopodiché, con gli anni, il rapporto madre-figlio si deteriora irrimediabilmente. Nel caso di Balsamo e della mamma la causa è quel tipo di coincidenza di caratteri che separa anche le coppie migliori. Nel caso di Max e Amanda è un allontanamento ancora più radicale: la madre muore in un incidente stradale.

Ai due figli/protagonisti non resta che un solo mezzo per ristabilire un legame: recuperare e rivivere il vecchio film della loro mamma.
Striscia Film mamme
A questo punto le trame divergono quel tanto che basta a non poterle raccontare insieme. Ma uno che abbia occhio per la morfologia della sceneggiatura, un Propp del cinema insomma, continuerebbe a vedere chiaramente le corrispondenze profonde.

Mario Balsamo va a trovare mamma Silvana dopo tanto tempo, e ci va con la cinepresa accesa: la coinvolgerà così nel suo documentario che solo pretestuosamente riguarda la sua carriera di attrice. Ne nasce un’esperienza intensissima di confronto tra i due, che ripercorrono le fasi del loro rapporto, le memorie comuni e quelle discordanti, le rispettive solitudini (vedova lei; single, anzi scapolo, lui), le ambizioni, i modi diversi di affrontare il cinema e ciò che rappresenta, l’esistenza e ciò che riserva.

Max, intrufolatasi dietro lo schermo durante una proiezione del film della mamma, si troverà a farne parte. E nel campeggio patinato dove tutti sono destinati al massacro, la incontra: anzi, non propriamente lei, ma il personaggio che interpretava: la ragazza bella, frivola, senza spessore, che nella trama (come tipico degli horror) è destinata a morire tra i primi. Ciononostante Max cerca disperatamente, e costruisce con fatica, un rapporto più autentico e più profondo di quanto il personaggio della madre non sembri permetterle.

Sarà che sono più o meno coetaneo di Ritorno al futuro, ma per me è qui il tratto più suggestivo suggerito da Mia madre fa l’attrice e Final girls: l’idea cioè di confrontarsi coi propri genitori “alla pari”, di riscoprirli ragazzi senza più vantaggi di saggezza o svantaggi di soggezione, alle prese con i nostri stessi dubbi e le nostre difficoltà. Max e Amanda (inconsapevole di essere la mamma) diventano confidenti e amiche, e la figlia consiglierà la madre ingenua per evitare che si metta in pericolo e faccia scelte avventate, per provare a salvarla dalla morte prevista dal copione che gliela strapperebbe un’altra volta.

Balsamo, regista espertissimo e docente di cinema, fa reinterpretare alla mamma le scene del suo antico film, dirigendola con (esilarante) severità. E quando alla fine riesce a recuperare l’ormai introvabile pellicola di “La barriera della legge”, la massima gloria attoriale della Stefanini, cala il suo giudizio implacabile:

Tutt’altro che un capolavoro. E tu sei troppo finta

Nel frattempo però, da collega a collega, da protagonista a coprotagonista del documentario, i due hanno ritrovato un terreno di scambio che travalica subito la dimensione cinematografica.

Insomma, in tutti e due i casi il recupero del rapporto madre-figlio avviene tra le scene di un film, attraverso la partecipazione di entrambi a uno script in cui, trasformandosi in personaggi, rinegoziano le loro relazioni.

La cosa mi colpisce, ma non mi stupisce. Se poco fa ho scomodato nientemeno che Propp, non è stato del tutto un caso. Gli studi inaugurati col suo “Morfologia della fiaba” e poi approfonditi da varie prospettive hanno messo in luce il fatto che in molte delle fiabe, delle leggende e dei riti di tutti i popoli del mondo la struttura centrale, archetipica, ha a che fare col rapporto coi genitori, col distacco del diventare adulti, eventualmente con la costruzione di un legame diverso.
striscia fiabe
Io stesso, che ho passato i miei anni ruggenti a riempire hard disk interi di storie sull’amore, a trent’anni mi sembra di non poter scrivere d’altro che di genitori e di figli.

Spiegarne il perché significa spiegare il motivo per cui si raccontano le storie: semplicemente per semplificare, dove necessario. E nell’ambito delle nostre relazioni quale è più variegata, complessa, inevitabile, profonda, storica e ricca dell’affetto familiare?

Io, se per cavarmela nello studio avevo bisogno di fare schemi, ora per cavarmela nella vita ho bisogno di fare copioni. Quello che non so vivere, lo faccio vivere a dei personaggini: così lo riduco, lo misuro, lo analizzo, lo comprendo. E lascio che soffrano loro al posto mio. Immagino che i popoli del mondo, nell’inventare le loro storie, facessero più o meno lo stesso.

La cosa può funzionare a patto di far vivere davvero i personaggi, come suggeriva il buon Flaubert, che ci possano sorprendere e insegnare. Pena il restare intrappolati in uno schema prefabbricato. Non per niente le due mamme dei nostri due film si ribellano alla sceneggiatura, ne riscrivono il finale. Amanda (ma qui mi tengo sul vago, lo spoiler è dietro l’angolo) agirà sfidando il principio che di “final girls” (in gergo cinematografico la “final girl” è l’unica sopravvissuta) non ce ne può essere che una.
striscia avventure
Silvana Stefanini, che soffre la freddezza del figlio regista, non si fa remore a suggerirgli la chiusura che vorrebbe:

Mi piacerebbe che tornassimo a casa, tu mi mettessi una mano sulla spalla, mi guardassi negli occhi e mi dicessi che mi vuoi bene

Ovviamente la cinepresa registra spietatamente anche questa richiesta. Così la scena che segue, il goffo ritorno a casa di madre e figlio, è da lacrime: diversi generi di lacrime. Mario mette meccanicamente una mano sulla spalla a Silvana, e sembrano proprio, sono proprio, due cattivi attori.

“Ti voglio bene”

“Anch’io”

[Pausa]

“Ok. E’ così che lo volevi il finale, no?”

“Si. Ma se lo dici non vale”.

Che poi è il principio base della sceneggiatura, e forse un po’ anche dell’amore: “show, don’t tell”. Non dire, (di)mostra.

Eppure, sarà che sono molto più bravo con la sceneggiatura che coi sentimenti, io a Mario credo.

Sarà che sono anch’io uno scapolo da troppe parole e pochi abbracci.

Sarà anche vero che se ne parli perde di magia, che se lo racconti si raffredda.

Ma per noi, che sappiamo fare solo quello, già dirlo è tanto.

Quindì si, signora Stefanini

Quindi sì, Amanda

Quindi sì, mamma

Se lo dici, vale.
FINAL GIRLS lacrime


NOTE:

I film nominati “en passant” sono Hellions di Bruce Mc Donald, Evolution di Lucile Hadzihalilovich, Nosotras. Ellas di Julia Pesce, Iona di Scott Graham e Keeper di Guillaume Senez.

Mia madre fa l’attrice” (ITA, 2015, 78 min.) è un documentario di Mario Balsamo. Silvana Stefanini, la madre, ha interpretato piccole parti in una mezza dozzina di film negli anni ’50. La sua interpretazione principale è il “La barriera della legge”, di Piero Costa, 1954. Non possedendo copia di “Mia madre fa l’attrice”, sono stato costretto a citare a memoria (con possibili imprecisioni). Nell’attesa di poter vedere il film intero il lettore può deliziarsi con un divertentissimo Teaser.

“Final girls” (USA, 2015, 91 min.) è una commedia horror slasher diretta da Todd Strauss-Schulson con l’eccellente sceneggiatura di M.A. Fortin e J.J. Miller. A dispetto delle tante parole spese, ho spoilerato davvero poco. Essendo già uscito il dvd, lo consiglio vivamente come regalo di Natale.

Sulla fiaba, oltre alla famosissimi scritti di Propp, posso consigliare gli studi sociologici di Levi-Strauss e quelli psicanalitici di Bruno Bettelheim.

 

 



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