ATTO POETICO URBANO 21 Ottobre 2020 – Pubblicato in: imperfezioni
Poesia di strada o Poesia Urbana, questi due termini vengono sempre più utilizzati da artisti e raccontati da riviste di settore che si occupano di quello che sembra un nuovo modo di far poesia. In realtà la novità non è di questo secolo e nemmeno di questi anni, ma gli albori risalgono al XIX secolo quando Mallarmé iniziò la sua rivoluzione formale riguardante gli aspetti tipografici della poesia e le spaziature. Nella sua “Un coup de dès” il poeta francese obbliga il lettore a seguire le parole secondo un andamento irregolare sulla superficie del foglio. Questo lampo rivoluzionario sarà ripreso dalle avanguardie, in particolare dai Futuristi, per poi arrivare alla poesia concreta e a quella visiva.
La Poesia urbana parte dal presupposto di avvicinare la gente alla poesia, genere letterario considerato spesso elitario. Degli esempi contemporanei e conosciuti possono essere quelli del Movimento per l’Emancipazione della Poesia o l’Anonima Poeti, che con volantini e poster riempiono gli spazi urbani italiani di versi di poeti anonimi. Se vogliamo però citare uno dei primi personaggi che si diede alla poesia di strada dobbiamo andare negli anni Sessanta e parlare di Ferruccio Brugnaro, un lavoratore del porto di Marghera che distribuiva poesia in strada, nelle scuole e in fabbrica. Sempre in quegli anni è collocato un evento importante, il festival “Parole sui muri” svoltosi a di Fiumalbo, esattamente nel biennio 1967-68, che ha visto la poesia visiva e concreta protagoniste in differenti modi. Gli ideatori del Festival stesso attraverso il manifesto della kermesse invitarono gli artisti ad inviare opere e poesie da esporre in strada o da affiggere ai muri, questo evento rappresenta una tappa fondamentale della storia, ancora agli albori, della Poesia di strada.
Uscendo dai confini italiani e approdando in Inghilterra troviamo l’ideatore della Guerrilla Poetry Robert Montgomery che attraverso cartelloni pubblicitari veicolò le sue poesie incollandole ad essi illegalmente. Vicino a questo modo di far poesia ma a tratti differente, è il Guerrilla Gardening di Anna Garforth, ovvero la riappropriazione di aree verdi degradate che vennero abbellite con piante e adornate di poesie, di Eleonor Stevens, sui muri attraverso l’uso di una pittura fatta di semi di muschio che una volta germogliati svelarono l’atto poetico. Questi sono solo alcuni degli esempi di atti poetici urbani disseminati in tutti i continenti che hanno diffuso tra palazzi, strade e giardini versi a tutti.
Uno degli ultimi atti poetici che qui vi raccontiamo ha come cornice la periferia milanese e si configura come la poesia più grande del mondo. Il palco su cui l’atto poetico è stato compiuto è a San Donato Milanese dove si trova una barriera, costruita negli anni Novanta intorno alla stazione per avere un effetto insonorizzante, di dieci metri che divide in due il comune. Si tratta dell’opera “Viavai” del poeta e street-artist Mister Caos, una poesia lunga più di cinquecento metri che si estende su una superficie totale di 11.248 metri quadri a dieci metri di altezza che è visibile solo da un palazzo di altezza maggiore o dal satellite.
Mister Caos ha dedicato l’opera alla sua città, in particolare a quella strada in cui è cresciuto. La scelta della barriera non è assolutamente un caso, ma vuole porre l’attenzione su via Di Vittorio, una delle strade su cui l’opera cementizia si affaccia. Quella parte del quartiere è reputata come degradata e pericolosa, soprattutto dopo essere stata isolata a seguito della costruzione della barriera insonorizzante, leggi mostro ecologico. In un’intervista Mister Caos, al secolo Dario Pruonto, definisce la sua poesia come un atto di amore verso il suo quartiere paragonandolo al regalo di innamorato.
“ViaVai”
Ritratto di una periferia qualunque, 2018
Vai via da questo viavai
che ti dimentica in fretta,
che ti sta sempre col fiato sul collo
ma quando hai bisogno
non ti da retta.
Via perché qua a tratti
quasi non si respira,
i materassi sui marciapiedi,
i lampioni spenti o intermittenti,
i parcheggi vuoti
e le auto comunque in doppia fila.
Via dalle urla,
tra balconi dei vecchietti,
che per capirle devi sapere
circa cinque, sei o sette dialetti.
E ancora:
le spinte e le sberle in cortile,
a casa a prendere il resto,
i fuochi d’artificio
anche quando non è festa.
Via con le mie cicatrici,
l’unica cosa che resta.
Via da dove i miei amici
ancora non vogliono entrare.
Dal grigio, la rabbia e la nebbia,
dalle scuse di una via chiusa
dai sottopassi che puzzano di piscio
e là, la mia vecchia casa.
Via da questo via vai,
unità di misura con cui vivo le cose,
e adesso che non ci sono
è un chilometro di parole confuse.
Via dal mio scudo,
che di fatto era fatto di sole coperte,
dai sogni con cui ho intasato i cassetti,
e dagli stipiti stretti
delle porte che per quelli come noi
non erano mai aperte.
Via dalle partite infinite di pallone
e dalla mia scuola elementare,
dai tramonti perforati dagli aeri per Linate,
dalla ferrovia che ci divide,
con sopra il treno
ogni mezz’ora
per scappare.
Via perché se vieni da qui
nessuno ti prende sul serio
perché tutto questo lo capisce solo
chi si concede davvero:
La rabbia, il rispetto e il riscatto,
il cuore aperto di una via chiusa,
i posti che mi hanno cresciuto
e il viavai
che io chiamo casa.
Foto di Dario Pruonto