La condivisione ci salverà 31 Ottobre 2018 – Pubblicato in: interferenze

fotografia di Antonio Rochira per You Die

Per il lungo weekend di Ognissanti, ho pensato di preparare un lungo post sul trend topic della settimana: la #morte.

Chi si aspettava #fabriziocorona, può smettere di leggere.
In particolare parlerò di You Die, il film che ha rappresentato l’Italia all’ultimo ScreamFest (il festival dell’horror) di Los Angeles, aggiudicandosi il premio alla miglior fotografia (Davide Piazzolla).

Il film uscirà presto in Italia: la produzione mi ha concesso il privilegio di vederlo in anteprima, anche perché vi ho partecipato con un piccola consulenza di sceneggiatura.

Quando mi arrivò la versione provvisoria dello script (ad opera di Alessandro Antonaci e Stefano Mandalà) ricordo di averlo letto come si leggono le cose che funzionano: alzandomi a sedere, passando dal divano alla sedia, cominciando a prendere appunti, prestando insomma sempre maggiore attenzione. Questo crescendo di coinvolgimento che era già sulla carta, è restituito perfettamente nel film. Verrebbe da raccontare la vicenda, ma ho promesso che non farò spoiler. Chi contava di scoprire la trama, smetta pure di leggere.

Ad ogni modo, l’idea di base è questa: un’ app – Youdie – che una volta installata sul telefono ti uccide in 24 ore, aprendo il passaggio dal nostro mondo al regno dei morti. L’unico modo per non morire è installare Youdie sullo smartphone di un’altra persona. L’applicazione obbliga a vedere, attraverso la fotocamera con una sorta di realtà aumentata, delle mostruose figure di defunti venuti a “prendere” la loro vittima. Poco importa sapere se questi morti/mostri siano entità autonome che YouDie si limita a svelare, o piuttosto proiezioni psicologiche stimolate con input subliminali dalla app: su questo punto in effetti il film si limita a suggerire interpretazioni. Quello che conta è che il digitale e la sua proiezione si trasformano in qualcosa di reale, in grado di uccidere e di modificare davvero la vita delle persone.

Allo stesso modo, è un po’ ozioso chiederci se la nostra esistenza “digitale” rispecchi quella reale, o se non sia invece un mondo parallelo che distorce i caratteri, le relazioni e le modalità comunicative. Tutto quello che ci serve sapere, e che il film comunica con terrificante chiarezza, è che le conseguenze di ciò che ci siamo abituati a considerare “irreale” si riflettono sempre più irreversibilmente sulla nostra vita quotidiana, fino a riscriverla. Basti pensare all’impatto dei social sulla politica degli ultimi mesi.
E se cade il confine tra la vita e il virtuale, allo stesso modo può venire meno quello tra il virtuale e la morte. Qualcuno, ad esempio, si ricorda del fenomeno Blue Whale?

Smartphone, App, realtà aumentata: ecco una prima ragione per cui il film funziona: è perfettamente contemporaneo. C’è una scena in cui i protagonisti guardano un horror, e fanno un commento ormai molto comune tra i frequentatori del genere:

Possibile che questi non abbiano un cellulare?

In YouDie i cellulari ci sono eccome, anzi: sono la condanna. C’è Whatsapp, Tinder, e poi c’è Torino, la pizza da asporto, il Carrefour di Corso Casale, la casa in affitto: vite di oggi e di qui, simili alle nostre. Potrebbero quasi essere la nostra (con l’unica differenza che io non uso Tinder. E comunque se lo avessi usato non ve lo direi).

Da questo presupposto di immedesimazione parte la prima delle domande che assillano lo spettatore per tutto il film:

Io cosa farei? Sarei disposto a condannare qualcuno per salvarmi?

O meglio: sono disposto a condannare qualcuno per andare avanti ancora un po’? Già, perché installando YouDie su un altro telefono non ci si salva, semplicemente si ottengono 24 ore di vita in più. Questa idea secondo me è una bomba. Rende evidente e tangibile qualcosa di cui spesso, come sceneggiatori e come uomini, ci dimentichiamo.

E’ lo spoiler degli spoiler: alla fine muoiono tutti.

Nessuno di noi può salvarsi dalla morte: al massimo, ci “prolunghiamo”. Un eroe può lottare per tre atti, far fuori i suoi nemici e trionfare nel finale, ma ad un certo punto, qualche anno dopo la conclusione della storia, certamente morirà anche lui. Ora, la vera questione non è se si salverà, ma se c’è un motivo per salvarsi: questo dipende essenzialmente da cosa farà del tempo in più che ha conquistato. Bisogna insomma che la vita sia piena di qualcosa di grande e importante, perché valga la pena lottare tanto per mantenerla.
Chi ha ricevuto YouDie, invece, è costretto a vivere con il solo scopo di sopravvivere (nell’angoscia), e l’unico modo che ha per sopravvivere è fare del male agli altri. Non so voi, ma una discreta percentuale delle persone che ho incontrato vive esattamente in questa condizione. Anche senza nessuna app fantascientifica sul cellulare.

In una lettura da spiaggia che vi consiglio per la prossima estate, Storia della morte in Occidente, Philippe Ariès racconta che un tempo la morte veniva considerata niente più che uno dei momenti importanti della vita, come il battesimo o il matrimonio. E come ad un matrimonio al capezzale del moribondo accorrevano i vicini, gli sconosciuti, si portavano i bambini: perché ciascuno fosse pronto, quando sarebbe toccato a lui. In seguito la morte è diventata un affare privato, qualcosa da affrontare in solitudine, che nessuno dei vivi può davvero capire.

Negli ultimi tempi, a mio avviso, stiamo ritornando alla dimensione pubblica: blog e libri che raccontano le fasi terminali della malattia, reality dedicati, morti in diretta su Youtube. Peccato che la nostra maniera di esibire assomigli poco ad un’educazione alla morte, ma piuttosto ad un’assuefazione. Anche la morte, come qualunque altro contenuto, annoia per accumulo. Un attentato fa impressione, ma al decimo perdiamo il conto. La notizia di un grave incidente, su qualunque giornale viene dopo l’orologio di Ronaldo. Un bambino che muore commuove chiunque, ma davanti a una montagna di centinaia di bimbi uccisi c’è chi riesce a dire «Beh, in compenso i treni arrivavano in orario» (se appartieni a questa categoria, smetti pure di leggere).
Chi ama gli horror sa che ci sono storie che possono creare un’enorme suspense intorno a un evento minuscolo, e altri – ambientati in un immaginario totalmente diverso – in cui se non c’è uno sgozzamento per 5 minuti già ci si annoia. You Die non cerca l’accumulo: considerato tema e genere, muoiono relativamente in pochi. Sul fatto che si tratti davvero di un horror e non piuttosto di un dramma fantascientifico, si può discutere. Ma quel che è certo è che non annoia.

L’altra domanda destinata a echeggiare nella mente dello spettatore è:

Chi condannerei per poter sopravvivere?

E’ facilissimo contagiare chi ci sta accanto, ma siamo disposti a farlo? Uno dei personaggi lo ammette candidamente:

Io non sono un mostro, non installerei YouDie alle persone a cui voglio bene.

Così, per preservare salvare la propria famiglia (e la propria coscienza) propaga morte tra gli sconosciuti, dimenticando volutamente che ognuno è il caro di qualcun altro.
Anche su questo punto, YouDie tocca nervi scopertissimi. Chi sperava che il nostro mondo tecnologico e globale facesse un balzo nella direzione della fratellanza universale, è rimasto deluso. Siamo continuamente impegnati a ridefinire “cerchie” fuori dalle quali la vita di chi resta escluso non ci riguarda. Prima penso a me stesso. Prima penso a me e alla mia famiglia. Prima il nord. Prima gli italiani.
Un attentato in centro a Parigi ci colpisce, uno in centro a Kabul finisce dopo l’orologio di Ronaldo. Quando è caduto il ponte Morandi abbiamo ripetuto «ci sono passato mille volte» o «poteva esserci la mia famiglia», come se questo rendesse in qualche modo più drammatico o rilevante l’evento, perché più nostro. Siamo nell’epoca dell’intelligenza artificiale, eppure dev’essere un meccanismo istintivo di difesa, un po’ animale: visto che non posso preoccuparmi per tutti, mi preoccupo solo per il mio branco. Peggio: per l’interesse del mio branco, sono pronto a cannibalizzare chi non ne fa parte. Nello struggente speciale sui crimini nazifascisti, Alberto Angela continuava a ricordarlo, evidentemente perché ce n’è bisogno:

Quella era una persona, con una valigia e dei sogni, esattamente come te e come me

Potremmo pensare allora di “utilizzare” la app YouDie per sbarazzarci di chi se lo merita, in base a una nostra “scala morale”. In una delle scene più belle del film la protagonista sta per installare la app ad un personaggio che considera totalmente negativo, e nel farlo si accorge della foto dei suoi due bimbi sorridenti usata come sfondo del desktop. Per dire che basterebbe poco, anche solo un brandello di storia, per capire che non abbiamo il diritto di condannare nessuno.
Ma c’è di più: per installare YouDie a qualcun altro, ho bisogno che questa persona mi presti il suo telefono. E’ la fiducia, insomma, che ti condanna. L’altruismo, il buonismo. Se sei il tipo che tira dritto quando qualcuno che sta morendo ti supplica di fare una telefonata, non corri pericoli. Se sei disposto a far morire gli altri per non morire tu, stai sereno. Insomma, nel mondo di YouDie (e non solo) vincono gli egoisti.

Ricordo che nella sceneggiatura provvisoria il problema più grande era il finale. Se non passo YouDie muoio, se la passo uccido: dunque? E’ molto difficile uscire da una situazione creata così bene da essere senza uscita. Difficile vivere senza fare de male. Poi, invece, la soluzione era la più semplice del mondo.
Ce l’hanno insegnata da bambini, al catechismo. La ragione per cui, nel Medioevo, i moribondi aprivano le porte ai propri vicini. Sono le parole chiave della salvezza:
Sacrificio e comunione.

Oppure, in termini più “social”, sacrificio e condivisione.
Non spoilero nulla, l’ho promesso. Ma a voi pochi, che non avete smesso di leggere e che non vi siete distratti cliccando sull‘orologio di Ronaldo, una cosa la posso rivelare:

La condivisione ci salverà.

RIFERIMENTI:
You Die è un film di Daniel Lascar, Alessandro Antonaci e Stefano Mandalà prodotto da Eryde produzioni, Five Seasons Productions Ulixe e Ouvert.
Oltre al premio vinto per la miglior fotografia allo Screamfest di Los Angeles, è stato selezionato al Trieste Science+Fiction Festival
Le foto utilizzate provengono dalla pagina Facebook ufficiale del film.
Il libro citato è: Ariès, Philippe, Storia della morte in occidente, La Scala-Bur, 1998


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