La papera e la sposa 25 Novembre 2014 – Pubblicato in: interferenze
“Sono molto delusa. Non amo le regie con troppi piani stretti”. Mi asciugo i lacrimoni, nel buio del cinema, e mi volto di scatto. Nella fila dietro, una papera con velleità da critica sta pontificando in mezzo ai suoi amici. “Poi noioso, banale! Visivamente mi sembra un prodotto dilettantesco. Ho trovato ben scelte le musiche”. Sono incredulo: la papera sta parlando proprio nel momento perfetto per tacere, e cioè quando non sono ancora finiti i titoli di coda di “Io sto con la sposa”.
Di molte cose, con l’avanzare degli anni, ho imparato a non stupirmi. Ma credo che la mancanza di cuore mi sconvolgerà finché campo. Può anche essere che sia il mio, di cuore, a essere sovrabbondante e ipertrofico. Le mie lacrime tiepide comode nel buio in effetti mi fanno vergognare: sullo schermo un uomo ha appena raccontato a ciglio asciutto dei suoi figli piccoli rimasti in Siria sotto le bombe, che spera un giorno di poter portare in salvo. E ha anche detto che un adulto non dovrebbe sentire il bisogno di piangere, se il mondo andasse come deve andare.
Mi fa vergognare la poltronciona di velluto su cui ho ascoltato tante storie struggenti. Non perché essere stati in balia delle onde nel mare ghiacciato sia una ragione di vanto, ma perché questo film scuote la coscienza di chi ambisce ad essere una persona buona eppure non muove né le mani né la voce. Perché marca la distanza abissale tra chi soffre e chi, nell’agio, tratta la sofferenza come tema di discussione e le persone alla stregua di concetti, inquadrature, numeri e dati.
E’ una malattia di questi tempi: la chiacchiera nostra che assume più valore dei patimenti altrui. Tanto per fare un esempio, ho letto da poco un articolo in cui un giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, dopo aver scritto a chiare lettere che il riconoscimento per legge dell’unione delle coppie omosessuali è un diritto umano sancito dalla costituzione e dalla corte europea, sostiene però che in attesa di una norma precisa a tali unioni non si debba dare valore. E si scaglia contro chi, cercando di ovviare a un sistema che lui stesso giudica ingiusto, ha ufficializzato i matrimoni civili celebrati all’estero. Proprio così: il giurista si dimentica nel giro di una decina di righe che sta parlando di esseri umani veri, di un’urgenza vera, delle loro legittime richieste e di un’ingiustizia che sono costretti a patire qui ed ora. Un po’ come fermarsi al rosso se sei inseguito da Godzilla: l’unica cosa che conta è il rispetto della regola. Nelle fredde menti dei ragionatori moderni può così facilmente accadere che opinione, norma e burocrazia diventino più importanti dell’Uomo.
“Io sto con la sposa” è invece un film che mette al centro l’uomo, e già per questo merita rispetto. E lo fa in maniera scomoda, cioè in aperta e dichiarata violazione delle inumane leggi vigenti, con tutti i rischi del caso. Il soggetto del documentario è molto semplice: un gruppo di italiani (tra cui un poeta di origine palestinese che ha appena ottenuto la tanto attesa cittadinanza) decide di aiutare cinque profughi della guerra in Siria a raggiungere la Svezia, paese che, unico in Europa, riconosce la residenza ai rifugiati. Il film è appunto la cronaca di questo viaggio pericoloso. Nell’itinerario tra Milano e Malmö si celano varie insidie: se fermati e scoperti i profughi rischiano di essere ricondotti in Italia e schedati, mentre gli accompagnatori italiani e la troupe possono subire una condanna a 15 anni di carcere. Per riuscire nell’impresa la comitiva si finge un corteo nuziale: una ragazza siriana viene vestita da sposa, e un giovane interpreta suo marito. Perché nessuno fermerebbe una sposa, o almeno si spera.
Così, attraverso un percorso rocambolesco e anche divertente, costellato di insidie e di tappe attraverso tutta l’Europa, il gruppo riesce ad arrivare clandestinamente in Svezia e a offrire davvero una nuova possibilità ai rifugiati. In mezzo, i racconti di un dolore anch’esso vissuto come un viaggio di cui non si vede la fine. Dall’orrore della guerra, alla disperazione del distacco e della partenza, ai crimini degli scafisti che trattano i fuggiaschi come pacchi di trascurabile valore. E poi i soprusi subiti all’arrivo in Italia, la disillusione nel constatare che la promessa di 17 paesi europei di dare asilo ai profughi di guerra non è che una parola ad uso dei giornali. C’è, in questi racconti, più stupore che rabbia.
Eravamo in acqua, dopo il naufragio, ad annegare. Mandavamo una richiesta di aiuto ai Maltesi, ma questi rispondevano che spettava agli Italiani. Sentivamo gli Italiani, e ci dicevano che eravamo di acque maltesi. E intanto la gente intorno continuava a morire
In mare eravamo 205 persone, compresi 75 bambini. L’ONU non ci ha aiutati. La Croce Rossa non ci ha aiutati. La Guardia costiera per due volte non ci ha aiutati, hanno mandato un elicottero ci hanno filmati e se ne sono andati. […] E’ una cosa che fa male. La guardia costiera ci ha messo due ore ad arrivare…fondamentalmente non si degnava di venire da noi
E’ lo stupore devastante di chi, nell’urgenza e nella difficoltà, si appiglia alla propria umanità aspettandosi in cambio umanità. Comprensione, aiuto. E invece si accorge di essere considerato niente più di un evento, un caso politico, un punto sulla mappa. E’ lo stupore devastante di scoprirsi abbandonato.
O Dio, chi conterà i nostri respiri?
C’è, nel sentire questi racconti, un’umiliazione grande per noi. Che per assuefazione non ci sconvolgiamo più, e come la papera del cinema scambiamo il tragico col “banale”. Un’umiliazione per me, che del massacro dell’11 ottobre 2013 a Lampedusa mi ero impressionato per la quantità. Due o trecento morti, su per giù. E ora invece vedo sullo schermo uno dei superstiti che elenca i suoi amici partiti con lui, che non rivedrà. Ne descrive gli occhi, li ricorda bambini, racconta le notti passate insieme a fantasticare. Li chiama per nome e il loro nome lo scrive su un muro. Sembra Amleto che dà una volto alle ossa sparse del cimitero, un’antologia di Spoon River con le onde al posto delle fosse. “Noioso”, avrà pensato la papera, “un elenco”. Io invece imparo un’ovvietà, che non si impara mai abbastanza: non erano quantità, erano Persone.
l’esperienza <del film> ha inevitabilmente cambiato il nostro sguardo sulla realtà, aiutandoci a […] trasformare i mostri delle nostre paure negli eroi dei nostri sogni, il brutto in bello, i numeri in nomi propri.
C’è nel film anche la strana vertigine di vedere questi migranti che attraversano luoghi a noi familiari, venendo da lontano per andare lontano, carichi della loro storia e di nuove speranze. Perché magari li abbiamo incrociati, e come loro chissà quanti altri. Magari eravamo braccio a braccio sul tram. Magari potevamo aiutarli, potevamo ascoltarli, invece di fare attenzione alla borsa.
Ora, io non so dire per certo che cosa sia Arte, ma so molto bene cosa arte non è. Non è arte ciò che compiace e ciò che asseconda, non è arte ciò che non cambia e che non combatte. Non è arte quella che parla ai critici e non parla all’anima. Non è arte quella finta ribelle delle gallerie, il cui scandalo obbediente piace così tanto da esser comprato e venduto a milioni di euro. Non è arte perché non corre pericoli e perché, ad un mondo sbagliato, non è necessaria.
Per questo sospetto che “Io sto con la sposa” sia un’opera d’arte. E’ un film che corre il rischio in ogni sua fase: innanzitutto, non trovando finanziatori, è stato fatto raccogliendo soldi da migliaia di donatori via internet. E’ stato realizzato col rischio concreto di venire arrestati, e col motore potente dell’aiutare gli altri. Perché, per il resto, sembrava quasi impossibile che potesse essere visto, senza una distribuzione. E infatti i cinema hanno perlopiù rifiutato la pellicola. Non fosse che il passaparola ha riempito le poche sale in cui è uscito, e il film è diventato un caso. Ora gli stessi che lo avevano respinto lo richiedono, lo programmano ad oltranza: scoprono che una volta tanto la coscienza può essere redditizia.
E’ un documentario dove c’è l’informazione, c’è rabbia pianto e sorriso, e c’è anche tanta bellezza. Ma soprattutto è un’opera che va contro il senso comune. Contro le dimenticanze, le carenze del cuore, le insensibilità, che afferma “Il cielo è di tutti” nell’epoca dello “Stiano a casa loro”. Contro qualcosa di talmente radicato da aver preso il nome di “giustizia” nella nostra civilissima Europa. Quella “giustizia” che impedisce ad alcune persone di esercitare un diritto che è loro, che riporta chi fugge la guerra in mezzo alla guerra, che determina in miglia marine a chi spetta salvare una vita, che ha inquisito i superstiti di Lampedusa per il reato di clandestinità, e sul ritardo dei soccorsi non ha promosso alcuna inchiesta. “Io sto con la sposa” ha il coraggio di dire –non solo: di mostrare- che quando la legge è spregevole e ingiusta, con buona pace del nostro giudice della corte europea, bisogna violarla. Perché essere umani ha delle regole ben più profonde e inderogabili.
Insomma: si tratta di un film libero, come libera è l’arte. Nella scena più intensa, citando uno dei ragazzi annegati a Lampedusa, lo sposo dice qualcosa che sa di rimprovero:
Se devi vivere, vivi libero. Oppure muori, come un albero immobile
Immobile, fisso la papera dietro di me. Che non si arrende: “Ci avrei messo più cura, soprattutto nella regia. Avrei preferito qualche contrattempo in più, un po’ più di avventura. E poi avrei fatto più tappe, sai, per fare vedere bene i paesi che attraversano!”
…le riprese hanno sempre dovuto mediare con le esigenze dell’azione politica. Perché in Svezia ci dovevamo arrivare per davvero, non tanto per fare un film. E dovevamo arrivarci nel più breve tempo possibile. Questo ovviamente ha comportato ritmi di lavoro durissimi: dodici ore di macchina al giorno, le scene da filmare, i file da scaricare e quando andava bene tre ore di sonno a notte. Se la troupe non ci ha piantato il primo giorno, è stato per il clima che si è creato.
Immobile la fisso, e penso che se il buon Dio non ci ha dato un mondo giusto, che perlomeno ci dia la forza di agire. E se non ci ha dato la forza di agire, che almeno ci dia la grazia di saper gridare. E se non sappiamo gridare, beh…che almeno ci insegni a star zitti.
RIFERIMENTI E PRECISAZIONI:
Io sto con la sposa è un film di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry, presentato fuori concorso nella sezione Orizzonti all’ultimo festival di Venezia. Sul sito molte info sulla realizzazione, altre foto e una incredibile rassegna stampa.
Ho volutamente evitato di entrare nel merito delle obiezioni della papera. Oltre a scorrere la rassegna stampa con pareri di critici veri, consiglio caldamente di vedere il film, per formarsi una propria opinione.
Uno dei protagonisti, il giovanissimo Mc Manar, è stato rimandato in Italia insieme a suo padre. Grazie al successo del film si è già esibito in diverse città come rapper, con testi dai risvolti sociali notevoli.
Il Giudice autore dell’articolo che cito è Vladimiro Zagrebelski.
La prima citazione, per quanto più fedele possibile, non è letterale. Non ho potuto trascrivere l’intervista contenuta nel film.
L’ultima e la terzultima citazione in maiuscolo sono dichiarazioni dei registi. Le altre sono tutte tratte dal film