Yohji Yamamoto: la poesia del disordine 27 Maggio 2012 – Pubblicato in: imperfezioni
Le creazioni asimmetriche di Yohji Yamamoto proiettano la nostra mente in una zona di transizione dove si fondono perfettamente futuro e antiche tradizioni. Un non-luogo dove le differenze tra maschile e femminile si annullano. Una decostruzione dell’immagine che si tramuta nell’unicità di una preziosa opera d’arte.
Voglio cicatrici, fallimenti, disordine […] Penso che la perfezione sia brutta. Yohji Yamamoto
BACKGROUND
La sua storia ha inizio nel 1943 a Tokio, e la sua sensibilità subito rimane impregnata dei ricordi e degli orrori conclusivi della seconda guerra mondiale.
Dopo la laurea in legge, frequenta l’accademia del design alla Bunka Gakuin. Le prime collezioni prêt-à-porter presentate a Tokio, lo conducono presto al debutto a Parigi (1981), dove le sue creazioni concettuali e minimaliste spiccano per i tagli irregolari e l’uso esclusivo di colori come il bianco e il nero. Strappi, tessuti grezzi e pesanti accostati ad altri più leggeri, accessori unisex ricordano uno stile post-atomico, diretta reminescenza del suo passato post-bellico.
Quello inteso da Yamamoto non è un corpo da svelare, ma da occultare: un corpo che agisce sull’abito e lo trasforma. Le sue linee tendono a valorizzare l’interiorità di chi le indossa, ponendo l’accento sull’intelligenza e non sulla bellezza. Un’autentica rivoluzione percettiva, una forma di anarchia nei confronti della tradizione sartoriale dell’haute couture della prima metà del Novecento.
Nel 1989, il regista Wim Wenders realizza un documentario dal titolo Appunti di moda e di viaggio, teso a consacrare la filosofia di Yamamoto, ambientato tra Parigi e Tokio. Dal film emerge l’idea della negazione dell’effimero e la necessità intima di leggere la moda come un linguaggio poetico, che possa esaltare il valore dell’uomo e del tempo.
Con uno stile scaturito dalla raffinata eleganza nipponica, unito alla ricerca dell’essenziale, il sarto-artigiano getta un ponte tra Oriente e Occidente con l’apertura di boutiques in tutta l’Europa e a New York, diffondendo la sua linea d’abbigliamento Y’s. Dagli anni ’90 inizia a collaborare con brand come Hermès, Mikimoto, Mandarina Duck e Adidas, per la quale diventa direttore creativo della linea Y-3.
Il suo fascino influenzerà indirettamente anche altri campi: oltre alla collaborazione con Takeshi Kitano, per la realizzazione dei costumi visionari dei film Brothers (2000), Dolls (2002) e Zatoichi (2003), Yamamoto disegna gli abiti di scena per artisti come Elton John, Placebo e la straordinaria Pina Baush. Suoi anche i costumi per le opere classiche di Puccini e quelle moderne di Sakamoto.
TESSUTI
Cotone, lino e rayon vengono preferiti per le loro superfici di ordito e trama. Anche la mussola, solitamente usata nella “prima stesura” dei modelli, riveste un ruolo importante, perché incarna appieno il concetto di abito non finito. Viscosa e filati crespi, specie nel look maschile, definiscono forme confortevoli e semplici. In generale,i materiali più rigidi esasperano certi tagli spigolosi, mentre quelli più morbidi vengono drappeggiati in fluenti linee arrotondate.
Tutti i capi, specie quelli in tessuto bianco o nero, lasciano in mostra cuciture e imbastiture, parte essenziale del processo creativo e delle fasi realizzative. L’intricato motivo che ne scaturisce si tramuta spesso in pretesto decorativo. Stesso significato ha la controfodera, talvolta lasciata in vista: se normalmente è intesa come tessuto strutturante, restando nascosta all’interno dell’abito per definirne le forme, qui è trattata invece come finitura esterna.
Le asimmetrie, i tagli e l’idea di disordine nei tessuti così lavorati puntano a rappresentare la fragile interiorità di chi li indossa.
COLORI
Il colore prevalente è il nero, denso di significati essenziali nel definire la filosofia di base e nel richiamare la tradizionale cultura giapponese. Il nero è il colore delle ombre, è il buio definitivo, la silhouette universale, la povertà. Un richiamo costante alla volontà di eliminare la decorazione e il dettaglio, per ottenere linee estremamente pulite e distillate. Un subliminale invito all’introspezione.
Col tempo, tuttavia, le sue collezioni si arricchiscono di ulteriori tinte, accese e ben definite. Se necessario, il nero verrà esaltato dall’accostamento con il bianco o con colori chiari e brillanti, spesso in monocromia: il giallo, il blu, il verde, il rosso, sono intesi come tagli di luce vivida nell’oscurità.
FORME ASTRATTE
Il capo ideale non ha una taglia ben definita e non veste perfettamente: l’immaginazione deve essere libera di indovinare la silhouette di chi lo indossa. Le forme che ne conseguono tendono a proporre una nuova geografia del corpo dai contorni non ben definiti: l’aspetto finale è indistinto e impreciso. Identità e proporzioni del corpo, maschile o femminile che sia, restano intatte e niente interviene ad alterarle. Solo l’aria, con la sua intangibilità, definisce il rapporto corpo/vestito e ne struttura l’essenza attraverso un sapiente gioco di masse e volumi.
L’estrema vestibilità, l’utilità, l’efficienza e, soprattutto, la durata sono i concetti base che plasmano l’abito. Un abito o un accessorio pensato per non decadere troppo precocemente, in forte contrasto con i principi della società consumistica.
Il costante mutamento è l’espressione più evidente dell’avversione di Yamamoto nei confronti di un’insensata ricerca della perfezione, che limita il pensare moderno. Le forme che ne conseguono sono difficilmente associabili a figure predefinite o immagini riconoscibili, rifiutando qualsiasi stereotipo identificativo e dissolvendosi nella loro peculiare astrattezza.
Letture consigliate
Yohji Yamamoto, Talking to Myself, Milano, Carla Sozzani Editore, 2002
Veronica Piersanti, Il processo creativo di Yohji Yamamoto
Link di approfondimento
http://www.ablogcuratedby.com/yohjiyamamoto/