IKSTTSWLLTI 13 Ottobre 2014 – Pubblicato in: haiku
Comunicare con l’altro è ormai una questione digitale. L’interazione umana è una sostanza rarefatta e impersonale: l’identità reale è ben nascosta, i suoi tratti distintivi sfumati e inafferrabili. Abbiamo dimenticato chi siamo, persino ai nostri sensi siamo entità estranee, e il corpo non può sottrarsi a tale assenza di una solida definizione.
Lentamente e in modo impercettibile esso sta pure subendo la sua trasformazione, assecondando il cambiamento interiore e quel senso di sottile smarrimento che ci rende insicuri del nostro apparire.
Se il mondo della materialità si dimostra instabile nell’enigma di questa transizione, la realtà è tuttavia il luogo residuo entro il quale gli esseri umani devono in qualche modo affrontarsi, tramutati in creature ibride e affascinanti che pongono in discussione le norme estetiche in base alle quali si è soliti intendere il concetto di bellezza o del suo esatto contrario, tormentate dal dubbio sulla percezione dell’identità individuale.
Non sono pochi, in fondo, i designers che traducono questa impalpabile dimensione di incompletezza riformulando e distorcendo le sembianze umane, nel tentativo di spingersi oltre i limiti del corpo e ridefinirne simbolicamente contorni e volume, o introducendo in modo incrementale l’uso metamorfico di maschere che celano i volti.
Indiretto riferimento a Platone, del resto, secondo il quale per scorgere l’anima imprigionata nella caverna buia del corpo occorre superare la visione sensibile attraverso quella dell’intelletto.
È ciò che accade quando osserviamo le immagini digitali create da Pierre Debusschere, giovane visual artist che si divide tra il Belgio e le nebbie di Londra. Lo sguardo è indotto ad errare indefinitamente sulla superficie delle cose, dimenticando i limiti dell’immagine stessa in una intuitiva ricerca delle sue profondità.
La fotografia di Debusschere, fortemente influenzata dalla pittura Fiamminga, solitamente subisce una serie di brutali manipolazioni digitali per distaccarsi dal senso della prospettiva e assumere il senso di una complessa stratificazione di significati e layers successivi: le immagini così deformate concedono spazio a differenti chiavi interpretative.
Nel suo ultimo progetto “I Know Simply That The Sky Will Last Longer Than I” – un libro, una mostra itinerante dedicata alla sua produzione fotografica e un lungometraggio di 52 minuti che sarà proiettato solo negli spazi della mostra – egli indaga le complesse tematiche della bellezza interiore ed esteriore.
Il titolo è un esplicito richiamo alla filosofia dell’assurdo di Albert Camus, una citazione diretta da cui però Debusschere prende le distanze per poi sviluppare il suo complesso linguaggio fatto di immagini ipnotiche e surreali.
Il suo stile si distingue per austerità ed eleganza e in special modo per l’uso inconsueto delle luci, influenza diretta delle atmosfere islandesi, che rende il suo lavoro immediatamente riconoscibile.
La riflessione sul concetto del bello e del brutto così tradotta in immagini, si ispira agli scritti di Umberto Eco sull’argomento. Il suo lavoro esplora costantemente il dialogo tra le identità e tramite il trattamento quasi pittorico delle sue fotografie, insieme all’attenzione puntigliosa per i dettagli, i soggetti subiscono spesso stravaganti metamorfosi che finiscono col renderne irriconoscibili i volti e i corpi, trasformandoli in altro da se stessi.
In IKSTTSWLLTI, Debusschere esamina il corpo come conduttore di messaggi e sensazioni che trapelano inevitabilmente attraverso i volti e gli occhi: di conseguenza l’uso degli abiti è stato evitato ove possibile, perché non fossero d’intralcio alla piena espressione delle emozioni dei soggetti coinvolti.
Portfolio
iksttswllti
Photo Credits
Copyright © Pierre Debusschere