I non-luoghi della mente 2 Aprile 2013 – Pubblicato in: imperfezioni
Se qualcuno ci conducesse per mano verso il limite dell’infinito, un limite non definito da segni visibili, ma dissolto nelle atmosfere rarefatte del mattino o del farsi lentamente sera, proveremmo forse un disorientante senso di vertigine nel constatare che non si tratta di un concetto astratto, ma di una sfumatura impercettibile della nostra banale, quotidiana realtà.
Luigi Ghirri (1943-1992) immaginava la fotografia come una forma d’arte cui non si doveva porre alcuna limitazione. Non solo uno strumento con intenti descrittivi, tramite il quale era possibile effettuare una rappresentazione della realtà. Ma un “giocattolo magico”, una porta che improvvisamente poteva spalancarsi sull’infinito. E sorprenderlo.
Gli piaceva pensare, che nelle sue peregrinazioni all’interno della più banale quotidianità, avrebbe finito con l’imbattersi in qualcosa di unico, di inaspettatamente bello. L’eventualità di una simile, imprevista irruzione in ciò che visivamente dava per scontato e conosciuto, era uno degli elementi che maggiormente lo emozionavano nelle sue ricerche concettuali.
Lungo la strada, l’arte visuale gli aveva mostrato quella segreta e intima possibilità di partire dai dettagli più semplici, dall’ovvio, per riscoprirli sotto una luce completamente differente.
Ghirri aveva imparato che un simile modo di procedere gli offriva senza dubbio un’amplificazione delle sue capacità di percezione e narrazione visiva. Aveva scoperto potenzialità inimmaginabili in una realtà che ormai più nessuno era abituato a vedere: non è forse vero che ci limitiamo tutti semplicemente a guardare, fagocitando con lo sguardo ogni immagine con rapidità, con indifferenza? Bisognava invece osservare tutto come per la prima volta, come bambini.
[La fotografia] è una forma di lentezza dello sguardo. Luigi Ghirri
Il mondo intanto cambiava con una velocità pericolosa e insensata. Ghirri ne era ben cosciente. Un rischio diventato più evidente con la fotografia digitale. Ciò a cui principalmente si assisteva era un’irreversibile dissoluzione del reale su cui ci si era abituati, meccanicamente, a posare lo sguardo.
Rapiti da una sorta di vertigine della precisione, ci si lasciava sfuggire la molteplicità di significati nascosti nell’indefinito, e i non-luoghi si allontanavano alla deriva, dimenticati.
Guardare il mondo era come guardare i fotogrammi di una pellicola impazzita, fatta scorrere ad altissima velocità: lo aveva intuito per primo il suo amico e contemporaneo Eggleston, che nell’iper-precisione di molta fotografia di quel periodo vedeva addirittura il pericolo di una completa “anestesia dello sguardo”.
Per questo Ghirri iniziò ad attribuire alla fotografia il ruolo comunicativo di rallentare i processi di lettura dell’immagine.
Il mondo si presentava ai suoi occhi attenti e curiosi come uno spazio immenso e infinito e lui, col suo carico interiore del già vissuto e già visto, di quel mondo poteva ritagliare solo un pezzettino cancellando tutto il resto.
Occorreva spogliarsi di ogni radicata abitudine del vedere, mantenere la comunicazione al livello più semplice ed essere consapevoli dell’esistenza di una soglia – quel punto di equilibrio tra la propria interiorità e ciò che esisteva al di fuori di essa – su cui era indispensabile sostare una volta decisa l’inquadratura. Prima di ogni scatto.
La luce può diventare un colore di altro genere, determinare relazioni misteriose, potenzialmente affascinanti. Luigi Ghirri
I suoi paesaggi appaiono sempre come sospesi in atmosfere rarefatte, quasi metafisici e – con la loro assenza di figure umane – silenziosi, nell’intento di acuire con estrema lucidità la percezione del reale.
La sua poetica si compone di colori delicati, non saturi, e di toni emotivi che consentono ai luoghi di apparire come dissolti in una vaghezza che restituisce loro la qualità del sentire più profondo.
Letture consigliate
Luigi Ghirri, Il profilo delle nuvole, Feltrinelli, 2001
Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole, SEI, 1997
Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet, 2010