Una mosca in volo 4 Settembre 2013 – Pubblicato in: imperfezioni
Nel 1967, quando Bill Eggleston arrivò a New York portando con sé una serie di diapositive a colori che di lì a poco avrebbero ridefinito il modo di intendere la fotografia, egli non era altro che una fastidiosa anomalia. Tra i primi a non disdegnare l’uso del colore, aveva anche il difetto di trasgredire le regole basilari imposte dai circoli intellettuali dell’epoca, trattando i luoghi comuni e la banale quotidianità come soggetti d’arte.
I suoi scatti nascevano dal bisogno di allontanare l’insidiosa abitudine di ignorare certi dettagli dell’ambiente circostante, solitamente considerati privi di significato quando non addirittura ripugnanti o sconvenienti, rifiutando di assimilare quella che egli percepiva come una pericolosa “anestesia dello sguardo” (pensiero condiviso dal fotografo italiano Luigi Ghirri).
Profondamente legato alla sua Memphis e ai territori del delta del Mississippi, Eggleston scovava i suoi soggetti nei dintorni della sua abitazione, nei posti a lui più familiari o tra la gente incontrata per caso on the road, durante i suoi viaggi esplorativi negli States, in Africa o a Berlino, raccontandone la poesia, la violenza e lo humour impliciti, senza alcun pregiudizio visivo né volontà di denuncia sociale o politica.
Stazioni degli autobus, carrelli della spesa al supermercato, un triciclo arrugginito e abbandonato per la strada, acconciature di signore attempate, cadillac parcheggiate a due passi dalla sua casa: qualunque cosa poteva essere fotografata, qualunque oggetto aveva il potere di svelare una storia nascosta e attirare così la sua curiosità.
Le prospettive da cui ritraeva questa apparente banalità, andando sempre oltre le apparenze per svelare certe increspature della realtà altrimenti non visibili, non erano mai appiattite né monotone ma rese stranianti dall’irruzione di punti di ripresa poco ortodossi e sconvolgenti, lezione presto appresa dalle opere del maestro Henri Cartier-Bresson.
Non solo Eggleston fotografava “democraticamente” (espressione che avrebbe più tardi coniato come direttiva della sua arte più matura), ma lo faceva con un certo senso dell’astrattismo e dal punto di vista dell’insetto: lo sguardo quasi sempre si muoveva lungo diagonali spiazzanti, il punto di osservazione rasentava il pavimento o l’asfalto, quando non arrivava a sfiorare il soffitto quasi fosse “una mosca in volo” come accade in Red Ceiling (1973), uno dei suoi scatti più celebri.
La sua percezione del reale era in questo certamente influenzata dalla sporadica frequentazione di Andy Warhol, e in lui molti iniziavano a riconoscere il medesimo talento di Raimond Carver nel far emergere certe tensioni esistenziali dalla quotidinità tramite un’osservazione tagliente condotta attraverso un linguaggio assolutamente ordinario.
Eggleston aveva iniziato a sperimentare il colore tra il 1965 e il 1966, ma fu all’inizio degli anni Settanta che scoprì per caso a Chicago una tecnica molto costosa e complessa che permetteva una resa cromatica sorprendente – la Dye Transfer, oggi ormai scomparsa – con la quale era in grado di rivelare le suggestive qualità della luce nelle atmosfere del Mississippi, sfruttando tonalità sature e creando immagini che letteralmente grondavano colore.
Nel 1974 pubblicò un portfolio che includeva 14 stampe dye transfer assolutamente eccezionali per l’epoca, le quali finirono col diventare oggetto, nel 1976, di una discussa e prematura retrospettiva al MoMA di New York.
La mostra fu considerata dai critici un vero insulto alla fotografia d’arte, una volgare e oltraggiosa esibizione di noiosissime immagini scattate da un dilettante – l’autorevole critico del New York Times, Hilton Kramer, assimilò il lavoro di Eggleston al mondo del “banale” poiché il colore era normalmente associato alla pubblicità o alle diapositive di famiglia – eppure la decisione del MoMA finì per innescare una serie di riflessioni approfondite sull’uso del colore come mezzo espressivo nella fotografia, lanciando in modo definitivo la lunga e impeccabile carriera di Eggleston da allora designato come il pioniere della moderna fotografia a colori.
La visione di Eggleston negli anni ha influenzato inevitabilmente molti universi artistici a lui affini: il famoso Blue Velvet (1989) di David Lynch ne è un celebre esempio, così come alcuni esperimenti cinematografici del suo amico David Byrne e, indirettamente, di Sofia Coppola. Sue moltissime album cover divenute icone nel mondo musicale, fino ad arrivare allo stile inconfondibile di fotografi di talento come il notevole Juergen Teller.
Sito ufficiale
Artsy’s official Eggleston page
Photo credits
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