Il senso dell’imperfezione 5 Novembre 2012 – Pubblicato in: imperfezioni
A Louis Kahn (1901-1974), considerato dagli storici uno degli architetti più influenti del XX secolo, il NAI di Rotterdam dedica una retrospettiva tanto importante quanto ribelle: una riflessione significativa sull’opera controversa di un grande Maestro e un invito a risollevarsi dall’attuale confusione e superficialità d’intenti, per ritrovare il senso profondo del fare Architettura.
Forse in pochi se ne rendono conto, ma esiste un preciso istante in cui ogni essere umano inizia a pensare come un architetto. Appena venuti al mondo, sentiamo inevitabile la necessità di distinguere il buio dalla luce, il suono dal silenzio, il vuoto dalla materia. Piccole intuizioni della mente prendono corpo, un passo dopo l’altro, e l’esperienza che ne consegue – la scoperta, l’appropriarsi dello spazio, delle distanze, del movimento, del freddo e del caldo – è una rivelazione così intensa per alcuni da segnarne per sempre l’esistenza.
Architettura e uomo si fondono. Non esiste altra scelta.
Louis Kahn era solo un bambino quando la sua natura d’architetto si rivelò, ma il desiderio di carpire i segreti della materia lasciò su di lui l’evidenza di segni dolorosi, che da quel momento portò per sempre con sé.
Spinto dalla sua curiosità, si sentì irresistibilmente attratto dalla luce che emanavano alcuni tizzoni ardenti lasciati a bruciare nel focolare. La luce non ardeva come fosse una fiamma: era intrappolata nella materia. Voleva raggiungerla, toccarla: e così fece, ma pagandone il prezzo.
La sua pelle bruciò, riportando per questo irreparabili cicatrici da ustioni facciali. Un’impronta indelebile della sua imperfezione umana che lo avrebbe accompagnato per il resto della vita e di cui, molto tempo dopo, avremmo potuto leggere le simboliche tracce nelle sue monumentali architetture.
Se qualcuno gli avesse chiesto più tardi quale fosse il fine ultimo dell’Architettura, Louis Kahn avrebbe risposto che fare architettura è tendere alla verità.
Ed è questo che tutte le sue opere esprimono dopo così tanto tempo: una verità sostanziale che si compone di spazio, materia, luce, ombre e persino di silenzio. Nient’altro che questo.
La dimensione simbolica e la spiritualità che ne derivano trascendono ogni limite umano, ogni divisione astratta, ogni interesse economico o speculazione storica, nel rispetto assoluto di quella “volontà d’esistere” della forma architettonica che egli ha instancabilmente ricercato in ogni suo progetto, fino a giungere alla consapevolezza che “anche un mattone vuol essere qualcosa”.
If you think of Brick, for instance, and you say to Brick, ‘What do you want, Brick?’ And Brick says, ‘I like an arch.’ And you say to Brick, ‘Look, arches are expensive, and I can use a concrete lintel over you; what do you think of that, Brick?’ Brick says, ‘I like an arch.’ Louis Kahn
Sincero nelle imperfezioni lasciate in superficie, così come nella purezza delle forme euclidee, Louis Kahn ha a lungo cercato se stesso prima di dare una forma definitiva al suo pensiero e compiere la sua eresia, decidendo di discostarsi ampiamente dai dettami dogmatici del Movimento Moderno a cui avrebbe dovuto invece attenersi.
Osteggiato da molti, intrappolato dalla sua stessa ostinazione a non accettare alcun compromesso stilistico e con poche risorse a sua disposizione, riuscì a portare a termine solo alcuni degli ambiziosi progetti che aveva ideato tra gli anni 50 e 60. Poche opere, tuttavia di una grandiosità immensa, destinate a trasformarsi in vere e proprie icone dell’architettura mondiale: dalla Yale Art Gallery (1951-53) al Salk Institute for Biological Studies (1959-67), via via passando attraverso la Exeter Library (1967-72) e il Kimbell Art Museum (1967 -72) fino a sfiorare la perfezione con l’ IIM di Ahmedabad in India (1962-1974) e il Capital Complex di Dacca, in Bangladesh, iniziato nel 1962 e completato dopo la sua morte.
Le masse murarie simmetriche e monumentali, la pesantezza della materia ripetuta in ipnotiche forme seriali, l’uso poetico e controverso dell’arco e ancora la scelta di utilizzare materiali come il mattone o il cemento lasciato scabro e grezzo in superficie, sono i chiari segni di uno sguardo rivolto costantemente al passato. Alla ricerca di un conforto interiore, di risposte a domande esistenziali, di una forma che determini infine la funzione.
Un’architettura senza tempo, di cui il valore rimarrà scolpito per sempre nella memoria umana ed entro la quale sembra sia tuttora percepibile l’essenza del suo artefice, la cui stessa fine, alquanto impietosa, nasconde ancora un alone di inspiegabile mistero: Louis Kahn morì solo e in modo del tutto anonimo, colpito da infarto in una toilette della Penn Station a New York nel 1974, al ritorno da Ahmedabad, lasciando la sua ultima opera incompiuta e molte domande sospese e irrisolte.
Ci resta tuttavia la sua eredità spirituale, un unico indizio che traspare dalla drammaticità simbolica di tutte le sue opere: quel singolo, tagliente raggio di luce – segno distintivo del suo lessico formale – che lascia intuire misteriosamente quanto possa essere profonda, per noi, l’oscurità.
We are made of Light which has been spent; and this crumpled mass called material casts a shadow; and the shadow belongs to Light. Louis Kahn
Link consigliati
Louis Kahn – The Power of Architecture
(Exhibition NAI Rotterdam, 08/09/12 – 06/01/13)
Film
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1 Comment
Marta Novembre 05, 2012 - 13:11
Fantasticoooo!